deFormare la scena

deForma07 - 30

deForma07 - 13

In deForma (2007/2009) gli elementi fondamentali dai quali prende avvio il lavoro di ricerca sono una struttura scenografica (un dispositivo di tipo meccanico con valore poetico, una forma sospesa, di materia elastica che occupa lo spazio in alto della scena ed è collegata al corpo dei performer attraverso un sistema di funi e carrucole) e un lavoro di video arte (un video dal titolo Il tempo consuma realizzato nel 1978 da Michele Sambin ideatore anche del dispositivo).

Su questi dati oggettivi di partenza si applica il mio lavoro di scrittura declinato in tre diverse fasi.

La prima, in solitudine, consiste nell’elaborazione di pensieri che traduco in scrittura e che offrirò sia al regista/compositore che ai performer prima di iniziare il laboratorio. I pensieri ruotano attorno ai seguenti nuclei tematici:

Il tempo; il nostro esserci dentro; noi soggetti del divenire sottoposti al continuo mutamento.
La consapevolezza della doppia tripla infinita proiezione della realtà.
L’ adesione alla frantumazione delle scene in segmenti brevissimi.
Il privilegio del frammento come fonte di maggiore sollecitazione.
DSC_0392
©claudia fabris

 

La seconda fase avviene in compagnia, durante il laboratorio, in forma di scrittura corpo/voce. Occorre dire che nel laboratorio da subito sono posti in compresenza:

I corpi dei 4 performer.
Il video proiettato sul fondo della scena.
Il dispositivo meccanico, la forma sospesa.
4 microfoni posti al centro della scena.
DSC_0230
©claudia fabris

 

Ogni corpo segue inizialmente una partitura aleatoria di gesti originati dalla relazione con il dispositivo e con lo spazio. Avvicinarsi al centro per far udire, cadere, restare a terra, piegarsi sul dorso, cercare punti di equilibrio in situazioni di estremo disequilibrio sono i gesti dell’alfabeto con cui il corpo scrive le azioni.

Ogni movimento del corpo, ogni sua deformazione, riverbera nella forma sospesa che a sua volta si deforma. Osservare ciò che produce la relazione causa- effetto che lega i corpi alla forma sospesa, rende da subito evidente l’imprevedibilità degli accadimenti. Il palcoscenico diviene allora uno spazio sperimentale in cui la scrittura non può che darsi sotto osservazione dei fenomeni.

DSC_0230

 

Nelle azioni dei performer ci può essere al quinto minuto una relazione con qualcosa che è avvenuto al secondo minuto e così via in una rete incessante di rimandi tra i corpi che in scena avanzano, arretrano, si incrociano, si sovrappongono.

 

C’è, ad esempio, un momento in deForma che abbiamo nominato “via le giacche” e che corrisponde allo sganciarsi dei corpi dalla forma sospesa, un momento limite operante da confine tra un prima e un dopo. Il gesto delle giacche è lo sfondamento di questo limite. Consente di andare oltre.

Questo sconfinamento porta ad una profonda trasformazione per cui la tensione prima rettilinea (l’elastico) si muterà ora in curva di luce (tracciato luminoso eseguito live sul corpo dei performer).

Seguire il contorno di un corpo con la linea di luce ha trasformato la linea retta (che se esterna al corpo lo sovrasta) in linea curva (che se aderente al corpo lo contiene). Una trasformazione di tipo fisico ha assunto, valore poetico.

E’ stato a questo punto del percorso che, osservando le situazioni e lo spazio scenico creati, ho riconosciuto un clima beckettiano.

DSC_0076
©claudia fabris

 

Cerco le parole. Le trovo nel testo tradotto in italiano con il titolo di In nessun modo ancora che riunisce la cosiddetta “seconda trilogia” di Samuel Beckett.

Esse aderiscono in modo tanto inatteso quanto naturale all’opera che sta prendendo corpo. Le estrapolo dal testo d’origine e secondo la modalità precedentemente descritta, le ricompongo per affidarle poi ai performer perché le agiscano, su partitura, durante l’azione scenica.

Giunge una voce a qualcuno nel buio. S’immagini.
A qualcuno disteso sul dorso. Nel buio.
Niente da dire tutto da sentire
 Tentare, ancora. Fallire, ancora. Fallire meglio
Niente andate niente ritorni. Solo esservi. Restarvi. Ancora là. Fermo.
 Tutto solito. Nient’altro mai.
 Mai tentato. Mai fallito. Fa niente
Tentare, ancora. Fallire, ancora. Fallire meglio.
La scena resta ferma. La musica corre.
 Crea situazioni.
 Sviluppa indipendentemente le sue forme.
 Piega attori e cantanti a ripetere insensatamente la stessa frase.
Guardi dietro di te
 Come allora non avresti potuto e vedi le tue impronte
 Un passo
 Due passi
 Tre passi
 ...
 fissare, ancora
 dire, ancora
 essere, ancora
 in ogni modo in qualche modo in nessun modo, ancora
eppure, dire ancora

Infine si giunge a una terza e ultima fase che corrisponde alla scrittura della partitura/sceneggiatura elaborata dopo aver visionato, in video, il lavoro finito. Sottolineo l’inusuale ribaltamento: questo testo, anziché precedere il lavoro in scena, giunge nella sua fase conclusiva. La possibilità di scrivere una sorta di narrazione sembra possibile, dunque, solo dopo la visione e il relativo riconoscimento di ciò che si è fatto.
Nulla si può scrivere prima dell’esperienza. E solo dopo, la scrittura saprà mettere in luce il materiale “caldo” presente nella struttura “fredda” della partitura. E consentirà di darle un nome.

All’inizio, nel buio. Nel mezzo buio con squarci di luce. RESPIRO. Il corpo accompagna con il respiro il movimento regolare della forma. Il respiro la sposta da destra a sinistra, da dietro a davanti e così via. Poi ognuno cerca la sua strada, cerca le sue stesse impronte di un tempo. Riconosce il luogo. Prima il corpo. No. Prima il luogo. No. Prima entrambi. Ora l’uno ora l’altro. Riconoscere qualcosa. Confortarsi. RESPIRO. Come respiri tu, altri respirano. L’aria che butti fuori tu viene risucchiata da un altro: per un po’ di compagnia. Per condividere. E questa aria diventa Una, uguale per Tutti. Il respiro e la forma siamo una cosa sola. Sospensione verso l’alto. Mai abbiamo guardato così. 4 punti sono un unico punto. Ma questo è troppo, qualcuno molla. Di schianto. Qualcuno cede lentamente. Chi resta trattiene il respiro fino a che lo riporta là dove lo ha preso GIUNGE UNA VOCE A QUALCUNO NEL BUIO. S’IMMAGINI. A qualcuno sul dorso nel buio. Niente da dire molto da sentire, in pochi passi verso la meta. Verso la propria meta. Il tempo di invecchiare e sentirsi senza più altro che la propria voce e poi farla tornare da dove è venuta. Un corpo che scende lento. Un corpo che sale rapido con scatto nervoso. Prova a stendersi sul dorso senza toccare il terreno si stende sull’aria del proprio fiato o del fiato degli altri. Resta così, sospeso. Altri ci provano. Ancora. TENTARE ANCORA. FALLIRE ANCORA. FALLIRE MEGLIO. Tornare al proprio buio oppiure dare una voce al respiro. Entrambi. Tentare altre mosse di corpo, di luogo, di voce. Cadere. Rialzarsi. Cadere ancora. Tre voci diverse in un comune respiro alternato e comune e ancora alternato. E ancora, respiro alla meta. Guardo il caduto e lo porto con me. Poi io con lui per un altro tratto di strada. Il fiato è un segnale sospeso (un fischio) che giunge da punti diversi. Ancora alla meta NIENTE ANDATE NIENTE RITORNI SOLO ESSERVI, RESTARVI TENTARE ANCORA FALLIRE ANCORA FALLIRE MEGLIO. Cercare zone d’ombra o rioccupare l’orma lasciata dalle ripetute cadute. Il corpo battuto risuona. I corpi battuti risuonano. LA SCENA RESTA FERMA. LA MUSICA CORRE CREA SITUAZIONI SVILUPPA INDIPENDENETEMENTE LE SUE FORME. PIEGA ATTORI E CANTANTI A RIPETERE INSENSATAMENTE LA STESSA FRASE. Si aggiunge il corpo in quartetto. Caduta. Memoria che affiora di un prima. GUARDI DIETRO DI TE COME ALLORA NON AVRESTI POTUTO. E VEDI LAE TUE IMPRONTE. UN PASSO DUE PASSI TRE…. La strada che abbiamo davanti, al massimo dei su e giù e alcune volte voltarsi indietro. Guardare l’inesprimibile meta che per la prima volta è altrove. Ma non per tutti. TURN AROUND ONE STEEP TWO STEP Mi sgancio. Lascio andare. Il prima è alle mie spalle. ….. FISSARE ANCORA. DIRE ANCORA. ESSERE ANCORA. IN OGNI MODO IN QUALCHE MODO IN NESSUN MODO ANCORA. EPPURE DIRE ANCORA.

 

In conclusione, deForma, più di qualunque altro lavoro per la scena da me realizzato fino a quel momento, rivela la sua natura di opera non finita. E infatti si è declinato in più versioni.
E questo a causa di una struttura interna che consente o addirittura sollecita nuovi interventi, manomissioni, sviluppi, innesti. Il lavoro esprime e contiene al suo interno dunque il superamento del concetto stesso di Forma, concetto da cui ha avuto origine.

Nel superamento della forma, come limite che definisce qualunque oggetto-idea-comportamento, si apre un vasto campo di sperimentazione.
Ancora tutto da scrivere.

Questo testo è parte di un mio contributo al convegno Le graphie della cicogna. La scrittura delle donne come rivelazione. Università degli studi di Padova.
novembre 2011

firma_pierangela_allegro